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Immagine del redattoreEmiliano Galigani

Buon 155° compleanno, macchina da scrivere.

Se avete questa vecchia amica questo è il giorno giusto per rispolverarla!


Il primo nella storia ad inviare un romanzo in forma dattiloscritta ad un editore fu Mark Twain nel 1883, che scrisse il suo primo libro con la Remington N.1, la prima macchina da scrivere prodotta in serie. Fu Christopher Latham Sholes a brevettarla, il 23 giugno 1868

La storia della macchina da scrivere ha incerte origini ma possiamo attribuirla ad un’invenzione italiana. Il più remoto tentativo infatti risale al 1575 ed appartiene a Francesco Rampazetto, editore attivo a Venezia che progettò un congegno meccanico con caratteri in rilievo che permetteva ai ciechi di comunicare tra loro. Piero Conti, da Pavia, nel 1823 realizzò il tacheografo – dal greco “che scrive in fretta“ – e qualche anno dopo Giuseppe Ravizza, avvocato novarese, costruì nel 1846 un cembalo scrivano, brevettato poi nel 1855, di cui un modello è conservato al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano. In Alto Adige, Peter Mitterhofer, un falegname e carpentiere con doti di inventore, costruì tra il 1864 e il 1869 cinque modelli di macchine da scrivere, di cui i primi due in legno, e si recò a piedi da Parcines a Vienna per consegnare la sua invenzione all’imperatore Francesco Giuseppe. Il sovrano e i suoi esperti, però, non colsero l’importanza commerciale del prototipo che arrivò invece oltre oceano, esattamente ad un giornalista americano poi divenuto senatore, Christopher Latham Sholes. Sholes, desideroso di partecipare all’era dell’invenzione, iniziò a lavorare ad una macchina per numerare automaticamente le pagine dei libri.



Il suo modello presentava una tastiera simile a quella di un pianoforte con tasti di ebano e avorio, disposti in due file. Le lettere erano maiuscole e mancavano i numeri “zero” e “uno”, ritenuti sostituibili con le lettere “O” e “I”. Lavorandoci, Sholes si accorse della scarsa funzionalità della disposizione in ordine alfabetico delle lettere, e decise di adottare un diverso ordine che separava le coppie più utilizzate impedendo così i numerosi inceppamenti frequenti all’epoca, in quanto le macchine non erano così veloci da seguire la rapidità di scrittura. Fu chiamata QWERTY, dalla sequenza delle prime sei lettere da sinistra, ed è ancora la stessa sequenza che si trova su molte tastiere digitali, nonostante i tasti non azionino più leve. Il brevetto della Sholes&Glidden TypeWriter dopo alcuni tentativi falliti di commercializzazione venne rilevato dalla Remington & Sons che cambiò il nome alla macchina in Remington N°1 e nel 1873 ne iniziò la produzione in serie nel suo reparto di macchine per cucire.

La QWERTY inizialmente scriveva solo a caratteri maiuscoli e “alla cieca per il dattilografo”, perché il carattere batteva sotto il rullo e non di fronte: gli eventuali errori di battitura si scoprivano a fine pagina alzando il rullo. La Remington inizialmente rifiutò il brevetto dell’ingegnere tedesco, Franz Xavier Wagner, che aveva risolto il problema introducendo la scrittura frontale, così la Underwood, altra società americana già produttrice di nastri inchiostrati, acquistò il brevetto e si mise a produrre modelli più avanzati.

È questo lo scenario che incontra in America Camillo Olivetti nel 1893 quando, seguendo il suo insegnante Galileo Ferraris, partecipò a Chicago alla prima dimostrazione di illuminazione pubblica, ad opera di Thomas Alva Edison. Conquistato dalle nuove invenzioni, Olivetti rimase due anni nel reparto di ingegneria elettrica dell’Università di Stanford. Negli anni successivi portò in Italia la produzione di strumenti di misura e poi di macchine da scrivere, presentando la prima Olivetti all’Esposizione universale di Torino, nel 1911.



Le prime macchine prodotte erano grandi e pesanti, ma da subito ci fu l’esigenza da parte degli utilizzatori – scrittori e giornalisti in testa – di portarle con sé nei viaggi e spostamenti di lavoro. Ecco allora nascere le portatili, più leggere, comode, possibilmente “carine”, piccole e compatte nelle loro valigette. Nel frattempo si sviluppò attorno alle macchine da scrivere un lavoro prevalentemente femminile, che alle origini rappresentò una delle prime occasioni di emancipazione dagli “obblighi” domestici. La prima dattilografa fu a tutti gli effetti Lilly, la figlia del senatore Latham Sholes, cui il padre affidò il collaudo dei prototipi. 

Ma non solo piccoli collaudi. Le macchine da scrivere hanno accompagnato gli scrittori del Novecento nella stesura delle opere più amate della letteratura. La Portable N.2 del 1878 aveva già maiuscole e minuscole, con tasto shift e tastiera alfanumerica QWERTY. La Remington N.5 del 1886, usata da Agatha Christie, era ancora a scrittura cieca. Più piccola e leggera la Hammond N.1 fu usata da Lewis Carroll. La Underwood del 1893 fu la prima macchina a martelletti con scrittura visibile e ad usarla furono Luigi Pirandello, Ernest Hemingway, Virginia Woolf. Nel 1906, fece la sua apparizione la Royal N.1, con un design flatbed a base piana, usata da George Orwell. La Olivetti MP1, progettata nel 1932 e disponibile in vari colori, fu usata da Marguerite Duras ma ad avere maggior successo negli anni Cinquanta fu la Lettera 22 portatile, macchina utilizzata da Cesare Marchi, Enzo Biagi, Indro Montanelli, Leonard Cohen e Cormac McCarthy.

Oggi, quasi più nessuno la utilizza ma è diventata un oggetto di culto tanto che, di certi modelli, si trovano ancora i nastri. In Italia le troviamo esposte in alcuni musei tra cui a Milano, nel Museo della macchina da scrivere, a Trani nel Palazzo Lodispoto e a Bolzano nel Museo Peter Mitterhofer.



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